Dopo un lungo periodo in cui, le vicende libiche, avevano sconsigliato di avventurarsi nelle regioni confinanti con lo Stato che aveva rovesciato Muhammad Gheddafi, sembrava ormai molto difficile poter tornare in Algeria a visitare la regione dell’Hoggar e, ancor di più, penetrare nel cuore della lunga catena montuosa del Tefedest. Tant’è che, ancora oggi la parte orientale di queste montagne non è aperta al turismo, per ragioni di sicurezza, poiché è rivolta verso la parte algerina che confina con la Libia.

Avendo avuto rassicurazioni da parte dell’amica Serena Alborghetti, che collabora da qualche tempo con l’Agenzia Acacia Expedition di Tamanrasset, diretta dal signor Ahmed Rabah, abbiamo potuto organizzare questo viaggio nel profondo sud algerino. Questa zona, poco battuta dal turismo, ricca di testimonianze preistoriche, fa parte del Parco Nazionale dell’Hoggar. Insieme a noi, col nostro camper 4×4 Alfa Romeo, due amici geologi (Sabbadini, Zara) su un camper IVECO 4×4, con i quali avevamo già effettuato diversi viaggi nel Sahara.

Nel mese di novembre 2024, dopo esserci imbarcati a Civitavecchia, siamo scesi a Tunisi e diretti in Algeria, dove, al confine, siamo stati accolti dalla guida Ahmed e dalla sua collaboratrice Alborghetti. Dalla frontiera di Taleb Larbi a Tamanrasset siamo stati scortati da due mezzi dell’esercito come prescritto dal governo algerino per ragioni di sicurezza antiterrorismo. Purtroppo gli oltre 1.300 chilometri della “Transahariana” sono interrotti, in lunghi tratti, dai lavori di ricostruzione della nuova arteria con conseguenti rallentamenti e deviazioni su un fondo stradale realmente dissestato. A Tamanrasset abbiamo visitato la città vecchia e, circondato da palazzi, l’”ermitage” costruito da Padre Charles de Foucauld oggi noto come “il santo del deserto”. De Foucauld, giunto quaggiù nel 1901, durante gli anni della sua permanenza a Tamanrasset, oltre ad una costante opera missionaria, ha lasciato, anche, una grande opera scientifica riguardante la conoscenza dell’etnia tuareg fino allora tramandata soltanto oralmente. Lasciata la città, si parte verso le montagne dell’Hoggar i cui picchi, di origine vulcanica, raggiungono quasi 3000 metri. Un paesaggio unico al mondo dove De Foucauld costruì, nel1911, un piccolo eremitaggio per stare più a contatto con i tuareg e con Dio. Verso il piccolo paese di Ideles inizia una pista di un centinaio di chilometri che va verso il villaggio isolato di Mertoutek dove incontreremo la guida del Parco Nazionale dell’Hoggar che ci accompagnerà in diversi siti preistorici della catena del Tefedest.

Rispetto ad altri territori dell’Algeria, questa regione presenta delle caratteristiche paesaggistiche derivate dalla sua antica struttura geologica. Infatti, i movimenti delle placche della crosta terreste hanno, da sempre, subìto deformazioni creando pieghe, faglie e, di conseguenza, anche sollevamenti che hanno originato alti rilievi montuosi. In particolare, circa 500 milioni di anni fa, nel supercontinente meridionale del Gondwana, avvenne un notevole movimento tettonico verso nord, che provocò l’“orogenesi panafricana”. A quel periodo si fa riferimento alla formazione delle rocce granitiche della catena del Tefedest che si allunga, da nord a sud, per oltre 100 chilometri con una larghezza che supera i quaranta chilometri. La vetta più alta è la Garet el Jenoum (la montagna degli spiriti) scalata da Frison Roche nel 1935. In questa catena, nel Neolitico, sono state raffigurate un numero considerevole di pitture e graffiti. Dopo un centinaio di chilometri di pista pianeggiante, per lo più sabbiosa, si giunge al piccolo insediamento di Mertoutek l’unico del Tefedest. Il sito si caratterizza per le tipiche zeribe di canne e per le poche case in mattoni cotti al sole. Qui, incontriamo la guida che il capo villaggio tuareg ci presenta. Dopo aver compiuto semplici formalità per accedere al Parco Nazionale dell’Hoggar si riparte risalendo l’ampio e secco Oued Mertoutek.

Nel pomeriggio, lasciamo i campers e ci incamminiamo tra le rocce per raggiungere il primo sito preistorico: Tin Cabrin, le cui tracce dell’insediamento, sono state evidenziate con pietre. Infilandosi all’interno di una prima sottoroccia, ci appare la splendida rappresentazione pittorica di un grande felino: il Ghepardo sahariano (Acinonyx jubatus hecki) un animale in parte presente ancora oggi tra queste montagne, ma che la caccia ha portato quasi all’estinzione. Non lontano, in un altro riparo, vi è il graffito di un’antilope, probabile preda del ghepardo. E’ da considerare che quando sono state realizzate queste figure, l’habitat era costituito da una tipica savana alberata coperta da alte erbe e bagnata da fiumi. Nella stessa parete del grande felino si vede una scena di festa con donne e uomini e uno di questi sembra suonare uno strumento a corde (simile a quello raffigurato nella necropoli di Gurna a Tebe, in Egitto, molti secoli dopo). Le pitture umane ritratte sono tipiche della fase culturale detta dei “bitriangolari” uno stile molto schematico che è tra gli ultimi dell’Arte rupestre sahariana, riferibile già all’epoca protostorica. Lungo il percorso incontriamo un’altra cavità, dove sono raffigurati dei bovini, tipici della fase culturale “bovidiana” o “pastorale”. Ancora più avanti, all’interno di un altro grande nicchione di granito, c’è dipinta una scena di caccia al muflone inseguito da cani selvatici, che alcuni autori classificano come Licaoni, una specie, oggi, ormai quasi assente tra queste montagne. Nei pressi compare, anche se non in perfette condizioni, un “carro al galoppo volante” dipinto. Si tratta di una biga trainata da cavalli spronati da un cavaliere con una frusta. Forse vicino c’è un altro carro ma reso quasi illeggibile dal tempo. La presenza di questo soggetto è di estrema importanza perché è un’altra prova dell’esistenza di una vera e propria via transahariana probabilmente a partire dal 3.550 da oggi (sec.Prof. F. Mori).

Come ipotizzato, non solo, dall’archeologo francese Henri Lhote, ma, anche da altri, esistevano dei percorsi che collegavano punti d’acqua partendo dalla costa settentrionale africana libica (es Leptis Magna, Sabrata ecc.) col sud del Sahara fino a Gao sul fiume Niger. Probabilmente era già in atto quel cambiamento climatico che stava trasformando le savane del Sahara nel più esteso deserto del pianeta. Questa ipotesi è stata confermata grazie alla presenza lungo le direttrici, di figurazioni di numerosi carri trainati da cavalli, ripresi al galoppo, probabilmente condotti dai Garamanti, una popolazione berbera che si era stanziata nel Fezzan. Erano essenzialmente mercanti come raccontato da Erodoto. I Romani, dopo alcuni decisivi scontri, alla fine li avevano sconfitti sottomettendoli e poi utilizzandoli per i commerci col sud del Sahara. Proseguendo, troviamo, all’interno di altra sottoroccia, dipinti eleganti di figure, sempre in stile “bitriangolare”, ed animali, mentre, sui grandi massi, in alto, sono rappresentati graffiti di bovidi evidentemente più antichi. Seguendo l’ampio corso secco del Oued si arriva nelle vicinanze di una montagna dalla tipica cima rotondeggiante di 2.100 metri: il Kasker Nihade o “dorso dell’asino”.

Altre pitture, per lo più rovinate, sembrano raccontare momenti di lotta fra tribù. Molto interessanti sono le lastre piatte di roccia in cui furono scavate diverse grandi concavità o coppelle in cui erano macinati cereali con pestelli. Il fascino del deserto è difficilmente descrivibile quando arriva la sera col sole che, tramontando, dipinge il cielo di rosso mentre le montagne diventano come dei silenziosi neri giganti addormentati, lasciando spazio a un firmamento di migliaia di stelle luccicanti e galassie che, alle nostre latitudini, è sempre più difficile osservare. Il campo serale è uno dei momenti più belli del viaggio specialmente quando ci si trova attorno ad uno scoppiettante fuoco per raccontarci le emozioni provate nella giornata appena trascorsa.

L’esplorazione di questa parte del Tefedest continua a sorprenderci rivelando un mondo antico scomparso, come ad esempio, un gruppo di giraffe o il graffito di un grande elefante inciso su una roccia proprio a ridosso della riva di quel fiume che allora, oltre seimila anni fa, era circondato da alberi e da una savana verdeggiante piena di vita. Ancora due splendide immagini di ghepardi incisi nel granito le cui macchie sono picchiettate ad arte sul loro corpo. Questi animali hanno una specie di criniera da cui l’appellativo “jubatus” dell’Acinonyx (o ghepardo) presente quando l’individuo è giovane. Come in altre parti del Sahara, di giorno, è possibile incontrare il Moula moula, o “Monachella dalla testa bianca”, un passeriforme che i tuareg ritengono essere di buon auspicio e che quindi rispettano. Lungo l’Oued Ahor, un affluente del Oued Mertoutek, incrociamo un gruppo di giovani donne che vivono in una semplice zeriba e che si erano incamminate a cercare dell’acqua in un pozzo non lontano.

Il circuito, che diversi giorni fa avevamo iniziato, ci riporta a Mertoutek. Qui, nel villaggio è possibile trovare dell’artigianato locale con stoffe dai colori vivaci. Si riparte sulla pista nel letto del Oued, dove vediamo altri graffiti di bovini, impronte incise di sandali e dromedari tipicamente dell’ultima fase culturale sahariana. Il letto del torrente ha tratti allagati e attorno c’è la presenza della Calotropis (= fiore che sta rivolto verso il sole) una pianta della famiglia delle Asclepiadacee il cui lattice è velenoso, ma che è anche usato come antiinfiammatorio. Dopo una giornata intensa, usciamo dal Parco Nazionale dell’Hoggar per ritrovarci sull’asfalto della Transahariana a In Amguel . Poi via verso nord e velocemente rientriamo a Tunisi, dove la nave ci riporterà in Italia.
Con questo viaggio, abbiamo aggiunto al nostro “puzzle della vita”, un altro tassello dell’amato e sempre interessantissimo Sahara. On the road again!

Testo e foto/Giuseppe Rivalta e Carla Ferraresi
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