La seconda parte dell’intervista a Francesca Fogar riguarda racconti, aneddoti curiosi e divertenti, accaduti durante la lavorazione della serie “Jonathan” sulle tracce dell’avventura
Emiliano Caruso: Un’eventuale nuova serie del tuo “Jonathan: sulle tracce dell’avventura” di cosa parlerebbe oggi?
Francesca Fogar: Purtroppo oggi non ci sarebbero né i tempi né la maturità per fare una nuova serie, e con questo intendo un’evoluzione di “Jonathan dimensione avventura”. Oggi a 40 anni di distanza non sarebbe come prima, ma diventerebbe un programma su come ad esempio si fanno bene le foto per Instagram. Quindi non ci sarebbe proprio lo spazio per tutte quelle cose di avventura, fatta eccezione per il ruolo di Alberto Angela e per documentari che comunque resistono ancora sulle varie piattaforme televisive.
Non c’è comunque più lo spazio per quella modalità in cui uno si immagina che dovrebbe esserci una naturale evoluzione in una cosa che hai insegnato tanto, non c’è nemmeno quel personaggio dotato di carisma, curiosità e del bisogno di avventura intesa come scoperta. Come lo ha avuto papà, che ha perseguito questo bisogno per poi condividerlo. Al momento non c’è nemmeno questa cultura, nel senso del terreno adatto come ti dicevo prima, ma forse si sta preparando a tornare.
E.C.: Sempre su “Jonathan. Sulle tracce dell’avventura”, ci racconti un aneddoto curioso, divertente o interessante accaduto durante la lavorazione della serie?
F.F.: Te ne posso raccontare uno molto bello su una puntata che parlava di paracadutismo, quello degli anni ’80, quando lanciarsi e prendere il relativo brevetto non era scontato come oggi che sono diventati talmente facili e accessibili da tornare nel dimenticatoio. Dunque per raccontare i lanci in paracadutismo di Ambrogio sono andata a Casale Monferrato, dove presi anche il brevetto, e fu una bella esperienza perché tutta la troupe decise di fare un lancio, ovviamente in sicurezza e veicolato, dal momento che non sali su un aereo, ti butti, tiri il cordino e via. Ma fu bello perché ci ha uniti tutti, inoltre era una delle ultime puntate, quindi fu molto piacevole condividere quell’emozione.
E.C.: Il luogo più avventuroso in cui sei stata, quello che ti ha dato davvero la sensazione di trovarti fuori dal tempo?
F.F.: Non ce n’è solo uno, perché ho sempre preferito fare due viaggi. Uno in luoghi molto mistici, non turistici, lontani non solo dal punto di vista geografico ma anche culturale, e un altro molto diverso, all’interno della cultura evolutiva e del progresso. Ad esempio sono stata in Cina un anno e in seguito mi sono recata in Thailandia, è c’è una contrapposizione molto potente tra i due paesi. Poi ancora in India seguita dal Giappone, un’altra volta in Madagascar e in California. Ho scelto sempre dei contrapposti ravvicinati, e rimanevo un mese nell’una e un mese nell’altra tappa, e sono state talmente tante che non saprei farti una graduatoria. Ci sono state cose meravigliose in Patagonia e nel Madagascar, però ci sono state anche nell’accessibile Marocco e nelle valli di Urika in cui sembra di essere proiettati agli anni prima di Cristo. Quindi ce ne sono stati di luoghi, ma se proprio vuoi qualcosa è la foresta di baobab in Madagascar. In mezzo a quei giganti secolari ho proprio sentito qualcosa che mi si è mosso dentro.
E.C.: L’avere un padre come Ambrogio, molto famoso e, come racconti tu stessa in “Ti aspetto in piedi”, anche piuttosto esigente, è stato per te un ostacolo o uno stimolo?
F.F.: Entrambe le cose. Cioè l’ostacolo stesso è uno stimolo. Se tu hai un ostacolo davanti insieme al desiderio di sapere cosa c’è dietro, e qui torniamo allo spirito di avventura, questo diventa uno stimolo a superarlo e a conoscere la fatica e la scoperta. Senza l’esistenza di questi due opposti il risultato non c’è. Avere Ambrogio sia come mentore che come padre, cioè averlo come esempio incarnato di come l’ostacolo e lo stimolo possano convivere in un’alchimia potente di avventura, scoperta e di ricerca di qualcosa di più profondo, che vada oltre le cose che siamo abituati a vedere, ecco per quello è stato utilissimo, dal momento che non era soltanto una parola, un racconto o un insegnamento da tramandare, ma un esempio incarnato quindi preziosissimo.
E.C.: Molti rifiutano di eseguire le orme dei genitori, e decidono di dedicare la vita a tutt’altro. Tu e Rachele avete invece proseguito sulla strada dell’avventura. Quanto ha influito su questa scelta l’avere un padre come Ambrogio Fogar?
F.F.: Non direi che e io e Rachele abbiamo proseguito sulla strada dell’avventura in senso totale, come a dire “Facciamo l’esploratrice, prendiamo e andiamo a fare viaggi estremi”. Ti devo confessare che da un po’ di anni, complice anche il fatto che ho intrapreso un’altra avventura e sono diventata mamma di tre bambini meravigliosi, ovviamente ciò ha limitato quel tipo di avventura. Diciamo che questo spirito non è tradotto è incarnato come ha fatto mio papà, che viveva l’avventura e ne aveva fatto il proprio lavoro, poiché né io né Rachele lo abbiamo fatto. Ma abbiamo comunque ricevuto quel principio fondamentale che si conserva nelle nostre vite, quel tipo di avventura possibile in contesti normali, il vedere lo straordinario nell’ordinario. Abbiamo quindi proseguito su una strada con gli stessi intenti ma non nella forma concreta di diventare due esploratrici vere, che scrivono libri sulle loro imprese come faceva papà. Ma quello spirito lui ce lo ha trasmesso, anche se poi non è diventato il nostro lavoro.
E.C.: Vado a curiosare nella tua vita: la tua lista di viaggi ancora da fare?
F.F.: Ce ne sono tantissimi, ad esempio i due poli, perché mi affascinano molto. Non sono viaggi semplici, in cui si parte per mesi con lo zaino in spalla, ma è comunque una cosa che va fatta almeno una volta nella vita. Poi ci sono moltissimi altri paesi che vorrei vedere. In particolare la Russia mi affascina molto, nonostante nella mia mente sia una distesa di sterminata desolazione e freddo. Ci sono stata solo di sfuggita a Mosca e in un paio di zone intorno. Poi mi mancano ancora alcune zone in Africa, benché sia il continente che ho visitato di più, e in centro America, ad esempio Panama e non mi chiedere il perché. Anche la Tasmania è una meta che spero di raggiungere, ma diciamo che quelle fondamentali, che non potrei morire senza averle viste, sono proprio i due poli.
E.C.: Che libri ci sono sulla mensola di Francesca?
F.F.: Tanti, tantissimi. Qui ora davanti a me ci sono un libro di Jung, uno di Wallace, di Meda. Ce ne sono tanti, ma cambiano di continuo, uno di Pamuk, due bellissime Lonely Planet, il meraviglioso “Un amore” di Dino Buzzati, uno di Baricco, alcuni sulla vela. Non è una libreria piena e finita, nel senso che è in continua evoluzione. In cantina ci sono molti altri libri a cui sono affezionata, per farti capire che prima o poi rivedranno la luce, mentre questi finiranno in cantina. È un continuo divenire, anche perché io sì mi affeziono alle cose, ma sono comunque cose, quindi per me è più importante l’esperienza che ho ricevuto nel leggerli.
E.C.: Qualche sogno nel tuo cassetto dei desideri?
F.F.: Di sogni nel cassetto ne ho molti. Fare e scoprire il più possibile, cercare di non fermarmi e di non accontentarmi. Questo per me è il sogno vero, il riuscire a tenere fede a questi principi, poi le cose in sé sono solo delle scuse.
E.C.: Le due facce della medaglia: l’episodio peggiore accaduto in uno dei tuoi viaggi? E il migliore?
F.F.: Questo non te lo saprei dire, anche perché per me l’ostacolo e lo stimolo sono collegati. Potrei dirti di quella volta che ho preso un terribile acquazzone e sono rimasta bagnata per ore sotto al tetto sgarrupato di una casa in india. Episodio che comunque mi ha fatto scoprire quanto fosse meraviglioso essere accolti e ricevere un piatto di zuppa e una coperta, ruvida sì ma anche meravigliosamente morbida al contatto. La paura mi ha regalato molto in questo senso, facendomi capire che le due facce della stessa medaglia, la migliore e la peggiore, girano molto in fretta. In India poi me ne sono successe molte, anche lì con la paura. Ecco non so se ti è mai capitato di prendere quei pullman indiani a ridosso dell’Himalaya, dove hai la sensazione di morire sotto la guida spericolata degli autisti, ma hai anche una sensazione di pace, perché in quel contesto attraversi la paura fino al punto di pensare “Anche se il mio respiro si fermerà qui, per me va bene”.
E.C.: Chiudiamo con un po’ di filosofia. L’avventura è solo un modo per evadere dalla noia e dallo stress, rifugiandosi magari in qualche paese lontano, o la sua filosofia può ancora essere applicata alla vita di tutti i giorni?
F.F.: Se uno avrà avuto la forza di arrivare fino in fondo a questa intervista, credo di averti già dato la risposta a questa domanda.
Testo/Emiliano Federico Caruso – Foto/per gentile concessione di Francesca Fogar