Il 22 novembre 1922 l’egittologo inglese Howard Carter scopriva nella Valle dei Re, per mezzo millennio la necropoli reale di Tebe (ora Luxor) sulla sponda sinistra del Nilo, dove furono sepolti ben 25 sovrani egizi, la tomba ipogea di Tutankhamon (1341-1323 a.C.), dodicesimo faraone della XVIII dinastia del Nuovo Regno, figlio e successore del faraone eretico Akhenaton-Amenofi IV. La notizia fece ripetutamente il giro del mondo, arricchita ogni volta da nuovi particolari, non perché Tutankhamon fosse un sovrano particolarmente famoso e importante – morì infatti ad appena diciotto anni, dopo soli nove anni di regno – ma per il semplice fatto che la sua era la prima (e ancora oggi l’unica) tomba a giungere fino a noi integra e non violata da tombaroli antichi o attuali, consentendoci per la prima volta di gettare lo sguardo sugli oggetti che venivano scelti per accompagnare l’illustre defunto nel suo lungo viaggio nell’aldilà. Per questo il giovane defunto divenne immeritatamente il faraone di gran lunga più noto, rafforzando in maniera consistente il già allora attivo fenomeno dell’egittomania. Tra i 5.500 pezzi che formavano il suo tesoro tombale c’era anche uno stupendo pettorale policromo di 50×12 cm, formato da oro, pietre preziose, smalti e paste vitree, con al centro la scultura di uno scarabeo stercorario, simbolo della rinascita solare, di 18×28 mm, formato da una strana pietra traslucida dalla lucentezza vitrea color verde-giallo. Da allora il pettorale venne esposto, assieme all’intero tesoro del faraone claudicante morto di malaria, in un’apposita ala del Museo egizio de Il Cairo, e in tutte le relazioni, pubblicazioni, cataloghi, didascalie, ecc. la pietra centrale venne definita come calcedonio, nome generico di un biossido di silicio SiO2 attribuito a pietre dure composte da quarzo criptocristallino compatto di silice traslucida microcristallina con tessitura fibrosa.
Nel febbraio 1996 dinnanzi alla teca capitano i milanesi Giancarlo Negro, esploratore sahariano di lungo corso e specialista in arte rupestre preistorica, e il geologo e gemmologo Vincenzo De Michele, conservatore di mineralogia presso il Museo di Storia Naturale di Milano; ad occhi esperti quello scarabeo non sembra affatto di calcedonio, bensì forse di una materia assai ben più rara e unica, addirittura di origine extraterrestre, nota soltanto a pochi studiosi e ad esploratori sahariani con il nome di silica glass o vetro del deserto. Loro lo conoscono bene, per avere appena partecipato il mese prima, assieme ad altri studiosi, ad una apposita spedizione di ricerca nel deserto egiziano Il silica glass (LDSG, Lybian desert silica glass) venne “scoperto” nel 1932 dal cartografo militare inglese Patrick A. Clayton, personaggio narrato nel romanzo e nel film Il paziente inglese e poi animatore del leggendario Long Range Desert Group, in un tratto ben preciso del deserto occidentale egiziano, noto anche come deserto libico, chiamato dagli esploratori per la sua natura Great Sand Sea, Gran Mare di Sabbia, e successivamente studiato da Leonard J. Spencer, curatore della sezione mineralogica del British Museum di Londra. Si tratta di frammenti di varie forme e dimensioni, un tempo anche di 20 kg e oltre, oggi – grazie a troppi visitatori ingordi e poco rispettosi dell’ambiente – di frammenti assai più ridotti, di un vetro traslucido e semitrasparente giallo, chiaro o verdastro, composto per il 98 % da biossido di silicio SiO2, in pratica un vetro naturale il più puro che possa esistere sulla terra, tanto da denotare la propria origine siderale. Il restante 2 % risulta infatti formato da ossidi di ferro, alluminio, titanio e iridio, quest’ultimo un metallo assai raro sul nostro pianeta ma abbondante nei corpi siderali come asteroidi, meteoriti e comete. Si poteva ipotizzare la fusione del quarzo presente nella sabbia e nell’arenaria nubiana (roccia composta da sabbie sedimentarie marine cementate e solidificate nei tempi geologici) in presenza di una temperatura elevatissima (la silice fonde ad oltre 1.723° C) prodotta dall’impatto di un corpo celeste. Ma a sancire un simile evento mancava il corrispondente cratere sul terreno, con i caratteristici cerchi concentrici, in genere lasciati in simili casi. Nel deserto egiziano e libico in realtà si contano diversi crateri di impatto, ma tutti a distanza ragguardevole dall’area del silica, di epoca non coeva e quindi che non possono essere messi in relazione, senza considerare che il cratere relativo potrebbe giacere in profondità, oppure essere stato cancellato dall’erosione successiva. Esiste un caso nel deserto del Kalahari in Sudafrica di un cratere vecchio di 145 milioni di anni e prodotto da un meteorite di 5-10 km di dimensioni, individuato da trivellazioni geologiche a 750 m di profondità. Le ipotesi si accavallavano e si sovrapponevano, arrivando fino a teorie fantascientifiche, tanto che si riconobbe la necessità di convocare i diversi specialisti mondiali per tentare di giungere ad un’ipotesi genetica condivisa. L’incontro Silica 96 avvenne a Bologna nel 1996, organizzato dal Dipartimento di Fisica dell’Università felsinea e si concluse ipotizzando l’ impatto di un grosso corpo celeste nell’atmosfera – asteroide, meteorite o cometa che sia – ad una altezza di 10-12 km avvenuto 28,5 milioni di anni fa, nell’Oligocene medio, producendo sul suolo per il calore la fusione della silice in un vetro amorfo non cristallino, con proprietà fisiche superiori a quelle di qualsiasi altro vetro di origine umana. Un processo analogo a quello di formazione della trinitite, un vetro prodotto dalla sabbia esposta alle radiazioni termiche di un’esplosione nucleare, o anche a quello delle tectiti, oggetti vetrosi formati dal surriscaldamento dovuto all’impatto di corpi celesti. In natura la vetrificazione del quarzo avviene soltanto quando un fulmine colpisce la sabbia, generando le fulguriti. I frammenti di silica, smerigliati dal vento e dalla sabbia e che nella luce abbagliante del deserto brillano come smeraldi, si rinvengono nei corridoi interdunali longitudinali quasi al confine con la Libia, in un’area di 80 x 30 km.
Il Great Sand Sea costituisce uno dei deserti più estesi e meno frequentati di tutto il Sahara, battuto dal violento vento khamsin e dalle sue micidiali e mortali tempeste di sabbia – il vento dei 50 giorni lo chiamano i locali – evitato anche dalle carovane per l’assoluta penuria d’acqua e di vegetazione, in un oceano di dune alte fino a 150 m. E anche di uno dei più aridi. Infatti se il Sahara in generale riceve in media 100 millimetri di pioggia all’anno, qui la media raggiunge appena i 5 millimetri, giustificando pienamente l’assenza di insediamenti umani anche nomadi e temporanei, nonché di piste di attraversamento, almeno a partire dagli ultimi 6 mila anni, quando un Sahara verde e ricco di acque lasciò il posto ad un deserto iperarido. Parliamo dello stesso deserto che nel 524 a.C. inghiottì misteriosamente l’armata di 50 mila soldati dell’imperatore persiano Cambise diretta all’oasi di Siwa per conquistarla, dove però non arrivò mai e di cui non è emersa finora dalla sabbia nessuna traccia. Fino al 1920-30, all’avvento cioè dei mezzi meccanici, diversi tratti risultavano ancora inesplorati e ancora oggi sono ben pochi ad avventurarsi in questo mondo minerale: solo durante l’ultima guerra mondiale italiani e tedeschi da una parte, inglesi ed egiziani dall’altra, lo attraversarono più volte per infiltrarsi e colpire dietro le linee nemiche.
Sappiamo tutti come, nonostante lo scudo di protezione esercitato dall’atmosfera, la terra da almeno 2,5 miliardi di anni sia bersagliata da una continua caduta di corpi celesti di tutte le forme e dimensioni, molti dei quali hanno lasciato una testimonianza visibile – i crateri di impatto – altri no. Nel solo Sahara i crateri consistenti sono almeno una quindicina, alcuni scoperti soltanto negli ultimi decenni grazie all’esame delle foto satellitari, mentre diverse persone frequentano i deserti di tutto il mondo spinti unicamente dal desiderio di rinvenire minuscoli frammenti di meteoriti. Non si deve pensare che il deserto attiri la caduta di frammenti dal cielo più di altre regioni: semplicemente nella sua morfologia spoglia risulta più facile individuarli. E le conseguenze non sono sempre correlate con le dimensioni e la consistenza degli oggetti caduti. Ad esempio l’asteroide che 65 milioni di anni or sono formò il cratere di Chicxulub, sommerso con un diametro di 12 km nel golfo del Messico di fronte alla penisola dello Yucatan, ed a cui viene riconosciuta la responsabilità dell’abnorme presenza di iridio che portò alla scomparsa dei dinosauri, non superava i 15 m di diametro. Frammenti di vetro extraterrestre si trovano spesso in crateri di impatto meteoritico in varie regioni del pianeta, da quelli scoperti presso Wabar nel deserto del Rub al Khali in Arabia Saudita a quelli di Hembury in Australia centrale, ma tutti presentano un aspetto assai diverso dal vetro egiziano, che può essere quindi definito unico e irripetibile. A produrlo deve essere stato un evento assolutamente sconvolgente, non tanto diverso da quello registrato nel 1908 a Tunguska, nella Siberia centrale. Al mattino del 30 giugno si registrò un’immane esplosione dovuta all’impatto nell’atmosfera di un meteorite (o di una cometa) ad un’altezza di 5-10 km, che provocò un’onda d’urto pari ad un terremoto di 5° grado della scala Richter. Si calcola che fu un’esplosione della potenza di 15 megatoni di dinamite, cioè mille volte la bomba di Hiroshima, prodotta da un asteroide di un diametro di appena 30 m, ma che viaggiava ad una velocità di 15 km al secondo (pari a 54.000 km orari, 44 volte la velocità del suono), con un’impressionante energia cinetica trasformata in altrettanta energia termica. In quest’area pressoché disabitata di taiga le conseguenze dirette furono l’abbattimento contemporaneo di 60-80 milioni di alberi, su una superficie di 2.150 kmq, ma anche il quasi deragliamento a 600 km di distanza dei treni della Transiberiana e a Londra un bagliore tale che a mezzanotte avrebbe permesso di leggere un giornale.
Per tornare allo scarabeo del pettorale di Tutankhamon, dal quale siamo partiti, occorre dire che gli esami gemmologici hanno poi confermato trattarsi davvero di silica glass, materia già ben nota e usata dall’uomo preistorico per costruirsi strumenti litici, in quanto versatile a creare superfici taglienti quanto l’ossidiana e la selce. In compenso si è trattato, almeno fino ad ora, dell’unico gioiello ricavato da tale pietra. Strano, perché gli Egizi non esitavano a sfidare il khamsin ed a spingersi nel cuore del Gran Mare di Sabbia, situato ad 800 km dalle rassicuranti sponde del Nilo, pur di procurarsi ad esempio prodotti meno nobili come l’ocra rossa, da utilizzare per i dipinti e in cosmesi.
La recente scoperta, nella primavera 2005, di 26 sigilli di pietra e di 50 frammenti di ceramica incisa, nonché di sacche colme di ocra, vicino alle piramidi di Giza ci narrano di una spedizione militare di 400 uomini inviata dal faraone Cheope e da suo figlio Djedefre per approvvigionarsi di ocra rossa. Evidentemente il giovanissimo Tutankhamon era un amante delle novità esclusive: infatti nella sua tomba, oltre allo scarabeo di vetro, c’erano anche 19 oggetti in ferro, nonostante l’Egitto stesse ancora vivendo nel tarda età del bronzo. Se comunque vi dovesse capitare di passare dal Gran Mare di Sabbia, evitate di raccogliere gli ultimi frammenti di vetro del deserto: compirete un lodevole e responsabile gesto ecologico e vi risparmierete di incorre in un reato.
Testo/ Giulio Badini – Immagini tratte da Claudio Busi dal documentario BBC 2006 “Tuttankhamun’s Fireball” di Cinthya Page