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Homepage > CULTURA > MOSTRE > Paolo Villaggio: “Io la vita me la mangio”
luglio 11, 2017  |  By Pietro Tarallo In CULTURA, LIBRI

Paolo Villaggio: “Io la vita me la mangio”

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«Divoro di tutto», confessa l’attore. “Il mio male oscuro e stramangiare. L’altra mia passione sono i funerali. Voglio organizzare quello di Gassman e di Sordi». Paolo Villaggio, attore, scrittore, sceneggiatore e doppiatore, è nato il 30 dicembre 1932, a Genova, sotto il segno del Capricorno. Ha cominciato a recitare al Teatro Stabile di Genova con Ivo Chiesa. Al cinema ha interpretato un lottatore di sumo in Banzai di Carlo Vanzina. Nel 1968 approda alla Tv nello show “Quelli della domenica”. Crea il personaggio del ragionier Fantozzi che dal 1974 al 1990 è il protagonista di sette film e altret­tanti libri. Il successo è strepitoso. Ha 57 anni quan­do riesce a coronare un suo sogno, girare un film con Fe­derico Fellini, dal titolo “La voce della Luna”. Nel 1992 Lina Wertmuller lo vuole nel suo film “Io speriamo che me la cavo”, anno in cui  ottiene al festival del Cinema di Venezia il Leone d’oro alla carriera (1992). E’ il protagonista de “Il segreto del bosco vecchio” di Ermanno Olmi. Molti amori, ma uno solo vero: quello con Maura Albites, con cui è sposato dal 1958. Ha due figli: Elisabetta e Pierfrancesco.

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Il padre del mago Kranz, di Fracchia e di Fantozzi, specchio fedele e tragico di un’Italietta dura a morire, oggi è un maturo signore, canuto e in sovrappeso, che incanta con il suo surreale umorismo. Ed è per que­sto che è ormai entrato nel Gotha dei grandi attori. Ma che nasconde, dietro la maschera del comico, grandi paure e sconfinate nostalgie: la vecchiaia e la morte, Genova, gli amici, le partite della Sampdoria. Alle sue spalle un pas­sato avventuroso. Dopo la maturità classica al Liceo Doria, il più noto di Genova, va a Londra con la futura moglie, Maura Albites. Qui fa mille mestieri: lavapiatti, addetto alle macchine del caffè nei bar, annunciatore ra­diofonico all’Overseas Service della Bbc. Per quattro an­ni sta in giro per il mondo come intrattenitore sulle na­vi da crociera. Nel 1964, tornato a casa, rientra nei ran­ghi e nella vita normale: è assunto come impiegato di terza categoria all’Italsider, dove rimane per cinque an­ni. La febbre del teatro lo porta a recitare nella “Baistrocchi”, la compagnia di rivista formata da studenti universitari genovesi, e a organizzare lo spettacolo na­talizio dell’azienda dove lavora. Già allora irresistibile comico, viene notato da Ivo Chiesa, direttore del Teatro Stabile della Superba, che lo chiama a far parte della sua compagnia. Villaggio non si lascia scappare l’occasione: si licenzia e inizia così la sua brillante carriera.

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Con il passare degli anni Paolo Villaggio non ha per­so certo il suo spirito caustico e sferzante. Anzi, le sue battute sono sempre più pungenti. È il fisico ad averne fatto le spese. Dai 62 chili della giovinezza è passato ai 103 dei 66 anni attuali. Ha per­so in freschezza, ma ha acquistato in “pastosità”. Non è più una brioche croccante, ma è diventato un magnifico bignè, come gli ha sussurrato all’orecchio re­centemente una fascinosa signora estimatrice delle sue roton­dità. E lui Paolo Villaggio, il ra­gioniere nazionale, sportivamente l’ha preso come un complimento. Anche il suo volto, sovente tempestato da una folta barba bianca, si è ingi­gantito, rendendolo simile a un golosissimo “Monte Bian­co”. Un trionfo di panna montata, di cui è un ingordo estimatore. Gli occhi sono quelli di sempre: penetranti, curiosi, attenti, ironici e in perenne movimento. Saltel­lanti da una persona all’altra, tengono sotto controllo la situazione. Cappelli di ogni tipo e foggia, spiritosissimi, nascondono una canizie irrimediabilmente candida. In­dossa quella che è ormai la sua classica divisa: maglietta di filo, casacca e pantaloni di cotone sostenuti da un elastico in vita. Il tutto in profondo blu stinto. «Per as­secondare la rotondità», spiega. Qualcuno l’ha paragonato a uno gnomo di quelli che popolano lo scenario del suo film, “Il se­greto del bosco vecchio”, di Er­manno Olmi. Ha tutto l’aspetto di un guru e di un santone un po’ strambo. Anche l’età è quella giusta.

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Pensa di avere la vocazione del predicatore?

Forse. Saranno gli anni che passano. Sta di fatto che mi pare di conoscere meglio la vita e gli uomini. Di capire di più gli avvenimenti, anche quelli che ci piombano addosso non si sa bene da dove. Non voglio certo ergermi a filosofo o a politologo. Oggi c’è in giro tanta confusione, tanta rabbia, tanta “incazzatura”, frutto della grande emarginazione. Drogati, barboni, extracomunitari, disoccupati, quelli della curva nord o sud, i na­ziskin: sono loro che stanno sempre alla finestra, che non sono mai stati invitati alla festa. È su di loro che bisogna puntare. Umberto Bossi ha saputo raccogliere la rabbia di chi si sen­te tradito. Il partito comunista in­vece no. E si è lasciato sfuggire così una grande occasione.

Ingordo e famelico, è tra­volto da un’irrefrenabile bu­limia. Perché mangia tanto?

“Il mio regno per un’overdose di pollo”, dico spesso. Credo che la mia sia una malattia, una sorte di male oscuro, che mi spinge a rimpinzarmi di cibo. A volte mi alzo nel cuore della notte, apro il frigo e mi faccio un’o­verdose di pollo, spaghetti e torta pasqualina. Freddissi­mi. Immangiabili. Sono come una casalinga frustrata che si trasforma in un’orchessa per disperazione, per di­menticare la propria vita monotona e senza amore. In realtà sono un inguaribile ghiottone. Non c’è dieta che tenga. Per salvarmi non mi rimane che andare a prega­re la Madonna di Fatima. Forse dentro di me c’è un inconfessato istinto suicida. Tutti i medici mi hanno assi­curato che se continuo così non vivrò a lungo. E pen­sare che mio fratello è anoressico: pesa so­lo 50 chili, la metà di me. La colpevole è nostra madre che, fi­no a cinque anni fa, continuava a sgridar­mi per la mia vita sre­golata, perché facevo l’attore e non mi ero laureato.

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È nato a Genova. Che cosa rappresenta per lei questa città che tutti ritengono chiusa e scontrosa?

Genova è la città dove mia moglie ed io siamo cresciuti, dove ci siamo innamorati e sposati. Genova è per me “il posto delle fragole”. Un sogno. Ma ormai la mia vita è a Roma. Qui ho la mia casa, i miei cani, i miei amici. Genova rappresenta il periodo più bello della mia vita: la giovinezza. E la Sampdoria, è Boccadasse con le sue case colorate, è lo struscio in Corso Italia, è il gelato di caffè e latte, è i bagni di notte con l’acqua fosforescente sul corpo nudo delle ragazze, è il profumo inebriante del pitosforo. Quando scrivo una storia d’amore l’am­biento sempre a Genova o in Liguria. Davvero unici. E poi ci sono i Genovesi. Formidabili. Non sono provinciali, ma grandi viaggia­tori, si vestono all’in­glese. E decisamen­te sono un po’ snob. Sono un poco tanto attacca­ti al denaro, ma pur sempre molto signori e ottimi amici. Rimane in me la tentazione di tornarci a passare gli ultimi anni della mia vita fra gli amici di sempre. Ma la cosa non succe­de. Ormai sono rassegnato a morire a Roma.

Lei parla spesso della vecchiaia e della morte. E un modo per esorcizzarle? Ne ha paura?

Sicuramente sì. Però mi affascinano i funerali. Ne im­magino di stupendi. Protagonisti, i miei colleghi. Per Gassman, anche lui genovese, la musica di Albinoni e le lacrime di donne bellissime attorno alla sua bara al Teatro Argentina. Per Alberto Sordi, il più grande co­mico italiano con Totò, tre messe funebri solenni nella Chiesa di San Giovanni, tutta paramenti neri, viola e oro. Un delirio barocco. E poi c’è la vecchiaia. Un incubo. Io ci sono dentro fino al collo, visto che ho superato i sessanta anni e se mi va bene ne ho, spero, almeno altri venti davanti a me. È la stagione della vita più triste. L’ultima fermata è vicina. È per questo che i vecchi sono delle caro­gne. Sono dispettosi e mali­gni. Hanno una sessualità repressa, che tutti ipocritamente condannano. Però, se la tieni sotto con­trollo, ti dà anche una marcia in più rispetto ai giova­ni. Ti liberi da tante ipocrisie, da inutili desideri, vai su­bito al sodo, superi la vanità e l’invidia.

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Dunque l’amore non deve avere età. È così?

Ma certamente. Ho conosciuto mia moglie 43 anni fa. Lei aveva 15 anni e io quasi 20. Un amore lunghissimo, ancora oggi senza cadute di desiderio, quasi adolescen­ziale. Ormai siamo come una persona sola. Poi c’è l’a­more per i miei figli. Anzi con Pierfrancesco ed Elisabetta ho sempre avuto una sorta di complicità, profondamente cameratesca.  Da un po’ di tem­po mi succede una cosa stra­na. Le donne mi guardano con nuovo interesse, con deside­rio. In particolare le più giova­ni. Vorrei sape­re perché. Forse è vero quello che recentemente mi ha detto la gior­nalista Natalia Aspesi. “Sai, Pao­lo, le donne in fondo sono un po’ perverse e tu con il tuo fisico sicu­ramente ecciti questo loro lato oscuro”.

Sarà proprio Fantozzi, il perso­naggio che più di ogni altro lo ha aiutalo a sfondare, a subire la sor­te peggiore. Come mai?

E’ inevitabile per quasi tutti i personaggi famosi a lungo che siano condannati a morte dal loro stesso creatore. Fantozzi uscirà di scena nella prossima puntata della saga che ha avuto per protagonista il popolare ragioniere, l’ottava, in arrivo nei cinema a Natale, con l’eloquente titolo “Fantozzi va in paradiso”. Salvo poi, forse.., chissà.., per reincarnarsi in un neonato che, con l’imman­cabile baschetto sulla testa, nell’ultima sequenza piagnucola: «Ancora? Abbiate pietà di me».

Dopo Fellini, ancora un film con un importante regista: Ermanno Olmi. Come ha vissuto questa esperienza?

«Sul set del film di Olmi ho avuto una paura irrazionale, infantile. Io, animale di città e di mare, mi sono visto assedialo dalla natura, dal mistero del bosco. Specie di notte. Mi sembrava un luogo pericolosissimo, pieno di agguati. So­no stati i forestali, uomini che san­no parlare agli alberi, che mi han­no fatto capire i segreti del bosco e in qualche modo ho compreso, co­me succede al mio personaggio, l’avido colonnello Procolo, che dentro le piante abitano davvero gli gnomi e le fate. Vedere cadere un albero è stato allora come ve­dere uccidere un uomo crivellato di pallottole. Ho acquisito la consapevolezza che la natura deve es­sere salvaguardata e protetta a ogni costo».

Testo/Pietro Tarallo – Foto/Google Immagini

I genovesi, nati con il mare in faccia, sono storicamente dei grandi viaggiatori.  Il genovese Fantozzi rag. Ugo, pur non essendosi mai allontanato dalla sua città, è stato un grande viaggiatore. Dell’animo umano. Uno dei più eccelsi, con tanta ironia. Nel momento della scomparsa del suo autore, intendiamo rendere omaggio al comico genovese, ripubblicando un’intervista fatta a Paolo Villaggio in occasione del Festival di Venezia nel lontano 1993, dal giornalista genovese – e nostro collaboratore – Pietro Tarallo.  Villaggio è uno degli intervistati presenti nell’ultimo libro di Tarallo “Persone-Protagonisti 1984-2014”, pubblicato da Il Canneto Editore di Genova.  Insomma, cose tra genovesi.


 

 

 

 

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